Il curare nasce continuamente dalla nostra storia.
(..) siamo – noi tutti – figli di un racconto.

Lo Iacono, Virdimura

Una scrittura elegante e poetica, evocativa dei paesaggi e delle atmosfere con una qualità immaginifica quasi sensoriale.

La protagonista, com’è consuetudine della sua Autrice, si ispira a una figura realmente vissuta: la Dutturissa Virdimura, nel 1376, ottenne la licenza a praticare l’arte della medicina nei confronti dei poveri.

Simona Lo Iacono sviluppa la storia dalla sua audizione davanti alla commissione dei giudici, ormai in tarda età, e ne romanza a ritroso, come un’arringa, il racconto della vita dalla nascita.

È il 1302. La madre le parla durante il travaglio: voleva che nascere fosse per me come un avvistamento. Che approdassi a terra da una nave carica di promesse. La neonata fa solo in tempo a posare il proprio battito su quello di lei, che la donna muore di parto. Sono le braccia del padre a benedirla e battezzarla come il colore del muschio delle mura che circondano Catania.

Maestro Urìa, medico che conosce la scienza e i segreti delle erbe, le insegnerà ogni cosa, e più di tutto l’inclinarsi della cura e la guarigione come viaggio.

Ricorda. Se un malato è incerto chiedigli cosa ha sognato. Se è sicuro, chiedigli in cosa ha sperato. Curali partendo non dai loro corpi, ma dai loro lutti. Curali senza sottovalutare gli intoppi, dando più importanza al nascosto che la visibile. E se guariscono dì loro che sono migliorati da soli. Se muoiono, dì ai parenti che è stato per tua negligenza. Addossati le colpe che non hai e dimentica i tuoi meriti, ma soprattutto amali, figlia mia.

Una storia di vocazione e nobiltà d’animo dai contorni idealizzati, una sacralità a tratti favolistica, ma che evoca la nostalgia di una medicina come semiologia di tocco e sguardi attenti sul paziente.

Tanti anni fa, quando le mani rispondevano ai miei comandi e il naso intuiva gli odori, tutta la mia persona distraeva la morte. Non c’era malato che non sapessi leggere, sillabando sul corpo le lettere di uno stranissimo alfabeto.

Mio padre diceva che non c’erano solo le piante a fornire la cura. Ma la musica. Il ritmo. Il bagno in mare. La conversazione con i poeti. L’osservazione delle stelle. E, d’altra parte, chi poteva dire cosa fosse la guarigione?, rideva. C’erano corpi sani dentro cui l’anima agonizzava. E anime paghe, senza ferite, in corpi rotti. E nemmeno si poteva sostenere che le creature fossero fatte a settori e risanare solo una parte delle loro carni. Perché erano invece unificate come la volta che copre il mondo, sia essa benedetta. Il medico, dunque, era solo chiamato a scoprire questa unità.

Accadeva così da generazioni, c’era qualcosa di provvisorio non solo nella vita, ma anche nella morte, le stagioni ci sorpassavano come i dolori perché anche la creazione raccontava una storia e correva – veloce – verso il suo compimento. Quello che potevamo fare noi, figli rotti, sguarniti, mezzi azzoppati dalle intemperie, per accogliere il viaggio. Inserirci nel flusso, non per guidarlo ma per curarlo. Per amarlo.

Una storia di compassione e solidarietà, di una umanità legata in modo primigenio alla natura. Ma anche una narrazione accurata e credibile di un tempo di pestilenze, miseria e violenza, di lotta contro i pregiudizi e l’intolleranza, di sfida alle convenzioni sociali, a un patriarcato che perseguitava le curatrici come streghe, come impure.

È Pasquale, amico d’infanzia anche lui medico, a salvare Virdimura dall’accusa di prostituzione. Con lui costruisce un luogo di cura per gli indigenti, uno spazio che accoglie gli spaesati - come il delicato personaggio di Sciabè – e chiunque voglia apprendere e offrire a propria volta ciò che ha ricevuto.

Che la medicina non esige bravura. Solo coraggio.

Alle più paurose insegnai a tenere la mano ferma e concentrata, a non aspirare le esalazioni del sangue, a fare atto di pietà per ogni corpo immalinconito dal morbo. Il morbo, poi, non era una maledizione, spiegavo. Solo il segno che Dio padre ci volle fragili e spaiati, per ricordarci che fummo tutti – senza distinzione – precari, finiti.

La possibilità di trasmettere un legame e passare un testimone.

Un racconto dell’immaginario che ci ricorda il nostro essere figli di una narrazione che scopre la nostra ferita e inizia a guarirla.

Che la ferita è una spaccatura che ha solo bisogno di una carezza.

Impara da tutti i popoli. Scegli in ognuno qualcosa che ti appartenga per sempre. Non scansare la diversità, non evitare la fatica, non scandalizzarti del peccato. Ama tutte le donne, ma non possederle. Leggi più che puoi, nei libri e sul cielo. Sii visionario, ma concreto. E sognatore, senza mai pensare che il sogno sia un modo di fuggire la realtà. Amala, la realtà, qualunque essa sia. La vedrai meglio se saprai immaginarla. Dovrai avere le mani sempre vuote, il cuore pieno, i calzari slacciati e logori.

 

Di Simona Lo Iacono anche “Il Morso”:

https://cepsibo.it/index.php/cultura-e-societa/libri/recensioni/il-morso-di-simona-lo-iacono-neri-pozza-2017-recensione-di-daniela-federici

 

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