Conosciamo noi stessi
solo fin dove siamo stati messi alla prova.
Szymborska

Un romanzo ispirato alle rivelazioni di Margot Wölk, l’ultima assaggiatrice di Hitler che poco prima di morire rivelò la sua esperienza.
Un testo necessario per la conoscenza della nostra storia, che la cura dell’Autrice per la ricostruzione storica rende capace di calare il lettore nelle atmosfere e negli ambienti del piccolo villaggio tedesco dove dieci donne vengono portate ogni giorno nella caserma di Krausendorf per assaggiare il cibo destinato al Fürher, blindato nella Tana del lupo, il quartier generale nascosto sotto la foresta.
Rosa Sauer, la protagonista, fuggita da Berlino per i bombardamenti, vive con i suoceri; il marito è in guerra sul fronte russo. La coercizione e la paura della morte a ogni boccone, la dinamica fra le donne e il rapporto particolare con Elfriede, la leader carismatica del gruppo, l’innamoramento per un ufficiale delle SS, sono i fili principali dell’intreccio.
La fame e la paura: Il mio stomaco non ribolliva più: si era lasciato occupare. ... una giovane femmina ariana già domata dalla guerra.
Si trattava di sopravvivere, ogni energia era votata a quest’unico scopo.
Come restare vivi e umani?
Perché si può smettere di esistere anche da vivi.
Più mi adattavo e meno mi sentivo umana.
Lavorare per Hitler... poter ingerire cibo avvelenato e morire così, senza nemmeno uno sparo di fucile, senza un’esplosione... Una morte in sordina, fuori scena. Una morte da topi, non da eroi. Le donne non muoiono da eroi.
Sono creature senza protezione quelle donne, madri, vedove, giovani sole o col cuore sospeso per un marito disperso. La narrazione dell’Autrice fa immaginare che il bisogno di sentirsi ancora vive incidesse in loro perfino di più del bisogno di sopravvivere, perché il desiderio degli uomini ti fa esistere di più.
Sembra inevitabile quella relazione con l’SS, in un clima che richiama nel gruppo di lettura Il portiere di notte della Cavani, un confliggere interno che cede a un compromesso vile, un accadere in cui si scivola senza opposizione.
... mi presi la testa fra le mani, incapace di accettare che fosse accaduto. Una sotterranea euforia mi dava scariche a intermittenza. Niente mi ha fatto sentire più sola, ma in quella solitudine mi scoprivo resistente. ... ero io, ed ero innegabile.

Uno sguardo “da fuori”, quello della Postorino, che pare tenersi sulla soglia di molte questioni che porta in campo. La catastrofe della guerra, con la sua violenza e miseria, è una realtà sfocata in quel paesaggio lontano dai bombardamenti, dove si potrebbe sopravvivere quasi ignari, se non per le notizie dal fronte. Gregor, il marito di Rosa, le scrive di aver smarrito il senso: la narrazione galvanizzante di una nazione per cui andare a combattere si è sfibrata fra le trincee, nei giovani mandati al macello è rimasto solo un freddo e fangoso sparo per paura.
Anche il conflitto etico di quelle donne pagate e costrette resta uno sfondo, come risuonasse dell’ambiguità dell’intero popolo tedesco, di ogni popolo in condizioni analoghe probabilmente, l’adeguamento silenzioso che avvolge nelle sue spire di indifferenza e collusione, un’ambientazione che ricorda la zona grigia di Levi. Sembravamo tutti consenzienti in Germania... avevamo negato ogni realtà, credevamo di poterla sospendere, eravamo ottusi. … Io non sapevo se il resto della specie preferisse vivere da miserabile, pur di non morire; se preferisse vivere nella privazione, nella solitudine, pur di non calarsi nel lago di Moy con una pietra al collo.
Sotto quelle ceneri sbiadite, pulsano vene che scaverebbero caratteri più stagliati e rughe più profonde nei personaggi. L’ambizioso ufficiale di cui Rosa si invaghisce, che sale di grado e arroganza fino alla corte di Hitler, arriva a quella mansione fuggendo dagli orrori del campo di concentramento, un grumo innominabile che lo avvelena nell’intimo ma che resta solo un cenno. Così anche la colpa, il segreto, la vergogna, che si annidano nell’animo di Rosa, per quel servizio al Fürher, per il tradimento, per non essere riuscita a salvare Elfriede (forse il legame più vibrante del romanzo), sono più lasciati all’immaginazione del lettore che scavati da dentro.
È Elfriede la figura che assume più profondità, che provoca e prende posizione, che soccorre e rischia, che accende e smuove, uno spaccato più consonante con quella Storia che conosciamo a tinte forti.
La scomparsa di Elfriede mi rese catatonica. ... Le altre non sembravano turbate dalla sua vicenda. ... avevano rischiato di morire con lei e con lei erano scampate alla morte, ma questo non bastava ad averne pietà. Com’era possibile? Sono anni che me lo chiedo, decenni, e ancora non lo capisco.
Anche il salto temporale che, da quelle vicende del ’44, porta la protagonista, ormai anziana, al capezzale dell’ex marito, circondato dalla famiglia che si era rifatto, imbastisce solo un riferimento a ciò che non aveva funzionato fra loro, quando Gregor era tornato dal campo di prigionia e avevano riprovato alcuni anni insieme. I silenzi di Rosa, chiusa a ciò che non poteva dire degli accaduti di quei mesi, erano segreti che avevano cresciuto solo distanza fra loro.
Quella distanza è al cuore di ciò con cui la psiche amministra gli eventi più o meno traumatici e alienanti della nostra esistenza, uno spazio-tempo di elisione, espiazione, elaborazione, delle ferite, delle colpe, dell’indicibile, che scavano i loro solchi nell’anima.
Distanza utile e differenza efficace, diceva Green, da cui guardare le cose per poterle (ri)pensare.
Di certo quella vita che la protagonista non è riuscita a rifarsi, quella scena finale in cui si ritrova a un tavolo della mensa dell’ospedale, a inghiottire il pasto con una leggera nausea, guardando le persone che le sono accanto, richiama con sapienza il tempo che non passa, la sopravvivenza di ciò che insiste nella vita psichica, il suono della ripetizione che torna ad attualizzarsi, che cerca inesausto le sue possibili - e a volte mancate - trasformazioni.

Quello della Postorino è uno sguardo senza giudizio su figure tutt’altro che eroiche e il suo libro, molto ben scritto, ci ha interrogati su quelle che sono sembrate occasioni mancate di portare al centro della scena i molti chiaroscuri presenti in filigrana. Ma forse è la scelta di una “astensione” dell’Autrice (che si ritrova anche nel suo ultimo romanzo) che rende molto bene l’adesione stuporosa di quei personaggi a un sistema alienante. E forse, la nostra inclinazione all’agone dei sentimenti forti e sviscerati, ci ha fatto chiedere se quella cifra renda bene anche la partecipazione obnubilata con cui ciascuno di noi, ancora oggi, assiste alle grandi tragedie per lo più dalla distanza di sicurezza delle proprie case, un viaggio da turisti dentro la bocca del lupo.
Ci conosciamo solo fin dove siamo stati messi alla prova, ci ricorda la Szymborska.
L’Autrice pare richiamarlo in esergo, dove cita Brecht: Nel mondo l’uomo è vivo solo a un patto: se può scordar che a guisa d’uomo è fatto.

A cura di Daniela Federici

 

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