Com’è noto ai più, le cose che «fanno bene» non piacciono ai bambini, i quali fanno mille storie per mangiare la carne, la frutta e la verdura.

Essi apprezzano maggiormente la pasta, e naturalmente prediligono alimenti sfiziosi e poco salutari come il cioccolato, il salame e le patatine fritte.

I bambini preferiscono in generale i primi piatti alle pietanze perché queste, solitamente a base di carne, richiedono un più impegnativo lavoro masticatorio, che li infastidisce alquanto.

Inoltre la carne, come appunto la frutta e la verdura, è gravata di una sorta di implicita «soprattassa» superegoica: proprio perché la loro ingestione farebbe con tutta evidenza la gioia dei genitori e del medico di famiglia, il bambino – che spesso cova segreti motivi di oppositività e di polemico boicottaggio – si astiene ostentatamente dal cibarsene, mandando in bestia o in apprensione i grandi, che egli sa su questo tasto essere sensibilissimi.

Potrei dire molto di più sulle ragioni profonde della frequente riluttanza infantile a masticare e deglutire la carne: dovrei parlare, un po’ accademicamente, delle fantasie cannibaliche e sadico-orali del lattante, o del risentimento arcaico post-svezzamento, allorché il latte fu sostituito, nella storia di tutti noi, da nuovi e più complessi alimenti, e via dicendo.

Ma non è di questo che voglio qui occuparmi (tanto più che i non addetti ai lavori credo che mi prenderebbero per un visionario, a sentir parlare di un neonato mordace, incavo - lato duro causa svezzamento e casomai cannibale, talché per reazione ricuserebbe, da bambino cresciuto, la carne): no.

Ciò di cui io oggi intendo parlare è la cotoletta. La cotoletta, infatti, costituisce un fenomeno singolare, un caso strano, direi un unicum nel panorama alimentare, poiché essa – posso sostenerlo con convinzione – piace a tutti.

La cotoletta è un fattore trasversale che mette d’accordo tutte le generazioni, dal nonno al nipotino.

Esamineremo nel dettaglio le ragioni di questo diffuso gradimento, ma la cosa che voglio anzitutto evidenziare è il suo indiscusso successo proprio presso i bambini, la categoria che (anoressiche a parte) è da sempre in lite continua con la carne in genere, e con la bistecca in particolare.

La bistecca, infatti, nella sua desolata nudità, richiama inesorabilmente al concetto di dovere alimentare. Per il bambino, essa è associata a tediose nenie didascaliche circa i vantaggi della nutrizione proteica, accompagnate da vaghe e poco credibili promesse di rapida crescita staturale, che ricevono una evidente smentita ogni mattina dall’auto-osservazione allo specchio: non si cresce, non si cresce, non c’è niente da fare, la bistecca non serve a un tubo, è il solito imbroglio dei grandi; inoltre non sa di niente, e per masticarla e mandarla giù ci vuole mezz’ora perché è asciutta ed elastica o stopposa, e intanto gli altri sono già in cortile o il cartone in tv è già cominciato, e io arrivo tardi.

Non detto e non pensato, ma subliminalmente percepito, c’è anche un altro fatto: la bistecca, tecnicamente parlando, è per la madre una evidente sine cura, la si mette sul fuoco qualche minuto, e tanti saluti: ed ecco qua le famose proteine!

Dopodiché la madre può passare ad altro (e in effetti, oggigiorno, le madri che lavorano devono davvero passare ad altro; tengo a precisare, a scanso di ritorsioni, che quello che ho detto e dirò riguarda soprattutto il punto di vista – del tutto arbitrario e soggettivo – del bambino).

Con la cotoletta, no: con la cotoletta è tutto diverso.

La cotoletta implica – e i bambini se ne accorgono subito – un certo assorto affaccendamento della mamma (o nonna, o tata) al tavolo di cucina, per una operazione che, anche se gli adulti spesso non se ne rendono conto, assume agli occhi dei piccoli un valore magico, di formidabile interesse naturalistico.

Il bambino è infatti distolto dal considerare l’elemento base (le fettine di carne giacenti in un piatto, delle quali diffida), in quanto attratto da un evento di rilievo: la rottura delle uova.

Che dentro all’uovo ci sia qualcosa è un fatto certo, ma ogni volta che si rompe un uovo si è curiosi di vedere com’è quello che c’è dentro: tanto più che l’uovo, che evoca la pancia materna come contenitore di nuova vita, contiene appunto il tuorlo che è noto anche ai piccini come il precursore del pulcino (cioè, per l’inconscio, di una qualche rappresentazione primitiva di loro stessi), per cui vale senz’altro la pena di controllare e di darci un’occhiata.

Inoltre l’uovo è una sorta di contenitore irreprensibile, senza buchi e tutto asciutto all’esterno: mentre all’interno è un gran paciugo semiliquido di albumina con in mezzo il tuorlo che dopo un po’ si disfa, e in questa poltiglia primordiale (addio pulcino!) viene rovesciata, del tutto inopinatamente, qualche cucchiaiata di parmigiano, a rendere un po’ meno liquido l’insieme.

È a questo punto che inizia il prodigioso processo di trasformazione della fettina, che viene ripetutamente immersa ed estratta da tale mistura, risultando irriconoscibile rispetto alle condizioni di partenza, e assai più intrigante: i bambini sono irresistibilmente attratti da ciò che è bagnato, molliccio, scivoloso e colorato.

Ma non è finita qui: anche l’impanatura della fettina di carne suscita curiosità, perché è la messa a confronto di due realtà fisiche assolutamente differenti: un elemento compatto e umido (la fettina intrisa) interagisce in un istante con un elemento frammentato e secco (il pan grattato), uscendone inscindibilmente ricoperto di mille bricioline che ne mutano l’aspetto e che sembrano avere prodotto un oggetto dalla nuova identità: è la nascente cotoletta, che va incontro ora alla prova suprema, al sacrificio, al gran finale, immolandosi per noi in quell’inferno – vera anticamera del nostro paradiso – che è la friggitura nell’olio bollente della padella, ultimo atto di un prodigio casalingo, umile e sontuoso

al tempo stesso.

Chi di noi non ricorda, all’avvicinarsi dell’ora di cena, mentre si stava leggendo un giornalino o si rientrava dal cortile dopo i giochi con gli amici, quel rumore proveniente dalla cucina, quell’incantevole sfrigolio? E quel grato odore sapiente, saputo, già intenso ma non bruciaticcio, che ci avvisava infallibilmente: «C’è la cotoletta?»

Nessuno lo enunciava, forse nessuno consciamente lo pensava, ma era chiaro il fatto che chi aveva una volta di più realizzato quel piccolo miracolo era una maga, una strega buona capace di cose fuori del comune.

La mamma (o la nonna, o la dada) aveva ancora una volta fatto centro.

A questo punto, a mo’ di conclusione, pochi sintetici pensieri.

Primo: la questione delle proteine. La fettina della cotoletta era tal quale la bistecca; anzi era una bistecca travestita e mascherata; ma in virtù del processo trasformativo descritto trasmutava ineffabilmente in una nuova essenza, in una identità «altra».

Non più conflitti, non più ripulse! E anche l’aspetto etico-igienistico-superegoico era completamente disinnescato dalla consapevolezza che i cibi fritti fanno piuttosto male; e quindi le proteine venivano ingerite come fatto del tutto secondario, godendo la cotoletta di questo alone dannato/trasgressivo che la rendeva appetibilissima (come appunto i suoi confratelli salame, cioccolata, vino, caffè ecc.).

Secondo: lo scatto vitale.

Dimenticavo di dire che la cotoletta, così intensa e croccante, necessita, per la sua completezza, del brio e del ravvivamento che le giungono dalla spruzzata di limone finale, arguta ed energizzante, perfetta per risvegliare al punto giusto il degustatore dal torpido abbiocco fusionale indotto dal boccone fritto.

Il limone ci vuole.

Terzo (e ultimo) pensiero: in realtà dovrei vergognarmi di queste note, perché mi sono sistematicamente riparato dietro ai bambini: «i bambini amano questo», «i bambini desiderano quello».

Ma quali bambini... è il momento di fare un outing onesto: la cotoletta piace, è sempre piaciuta e sempre piacerà innanzitutto a me, giù la maschera!

Ciò non toglie che quanto affermato in questo breve excursus sia profondamente vero, e valido in assoluto.

 

 

Stefano Bolognini, psicoanalista con funzioni di training della Spi e dell’IPA, è Past-President della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e della International Psychoanalytical Association (IPA), fondatore dell’Inter-Regional Encyclopedic Dictionary of Psychoanalysis (IRED). Autore di numerosi articoli e libri fra cui, per Boringhieri: “Il sogno cento anni dopo" (a cura di), "L'Empatia Psicoanalitica", “Passaggi segreti. Teoria e tecnica dell'interpsichico”, “Lo Zen e l'arte di non sapere cosa dire” e "Come vento, come onda. Dalla finestra di uno psicoanalista, i nostri (bi)sogni di gloria" con il quale ha vinto il Premio Gradiva. Con “Flussi vitali tra Sé e Non-Sé” (Cortina) ha vinto la menzione speciale della giuria al Premio Gradiva.

We use cookies
Il nostro sito utilizza i cookie, ma solo cookie tecnici e di sessione che sono essenziali per il funzionamento del sito stesso. Non usiamo nessun cookie di profilazione.