“Fosse andato pur là dove è maestra
gente in far teglie, sotto cui bel bello
scoppietti il pungitopo o la ginestra,
a Montetiffi; o dove, a Montebello,
passero solitario, ancor per uso
torni nel solitario tuo castello.”
Giovanni Pascoli, L’asino, 52-57, 1907

La vecchia corriera si mosse rumorosa, scuotendo così forte i passeggeri che Girolamo trattenne il pacco voluminoso che occupava il sedile accanto al suo. Con un braccio cingeva il pacco che, insieme con la valigia riposta nel bagagliaio, costituiva tutto il suo possesso. Cercava col suo abbraccio di proteggere il piccolo mondo che portava con sé; era ciò che restava della sua famiglia, dopo che i genitori erano morti, in fretta esauriti e consunti dallo stesso male a pochi mesi l’uno dall’altra, lasciandogli alcune cose e un vuoto disperato. Il ragazzo, mentre la corriera saliva il tornante ampio come una terrazza, lanciò l’ultimo sguardo al paese col minuscolo cimitero: era l’estremo pensiero per i suoi che vi riposavano stretti stretti, quasi volessero riscaldarsi e rassicurarsi tenendosi per mano, come facevano ogni notte, prima di prendere sonno, nel grande letto matrimoniale.

A quindici anni, in una domenica di fine marzo, Girolamo lasciava Montetiffi, paese di Romagna, sulla corriera che lo portava a Sogliano e di lì a Cesena, dove il treno lo attendeva per un viaggio che sembrava senza fine. Andava a Parigi, ospite di uno zio sconosciuto che era partito da Montetiffi, forse con la stessa corriera, molti anni prima. Girolamo viaggiava incontro al proprio destino con qualche tenue speranza, ma non poteva provare affetto per quel parente misterioso, di cui conosceva solo il volto, ritratto in una stinta fotografia che la mamma aveva conservato con altre immagini di famiglia in camera da letto, incastrata tra la costa del comò e la grande specchiera. In casa si parlava raramente di lui e in termini così vaghi da pensare che ormai appartenesse a un mondo irraggiungibile e lontano. E ora toccava a lui raggiungerlo. Aveva imparato a scuola poche cose di Parigi: erano sufficienti ad accrescere la sua fantasia e il suo timore. Lo turbava il pensiero di varcare le colline che circondavano la conca in cui il paese se ne stava raccolto ai piedi dell’antica abbazia. Oltre le colline c’era un mondo smisurato: la pianura, vista da quelle sommità, pareva perdersi verso distanze infinite fino a confondersi col mare. Si sentiva perso anche lui dinanzi a quella immensità oltre la quale stavano monti altissimi con immensi laghi e altre smisurate pianure prima che dal nulla sorgesse Parigi con la casa che lo attendeva. Provò una stretta al cuore pensando che non avrebbe compreso la lingua dello zio. Chissà se ricordava ancora qualche parola in dialetto?

Il bianco dei fiori di mandorlo contrastava col cielo cupo, livido, minaccioso di tempesta, mentre la corriera si affrettava verso Sogliano. Girolamo pensò alla sua casa, chiusa, sprangata, con le chiavi affidate a Maria, la vicina che si era presa cura di lui dopo il ricovero dei genitori nel sanatorio di Forlì. E mentre il cielo si scioglieva in una pioggia veemente, non poté fare a meno di volgersi verso un punto lontano in direzione di Montetiffi, verso il mucchio di povere case raccolte a infondersi coraggio, verso la tomba dei suoi cari indifesa sotto il torrente implacabile della pioggia. Ingoiò le lacrime contro cui aveva lottato fin dalla partenza e pensò che sarebbe tornato, sì, sarebbe tornato per non staccarsi più dai suoi ricordi, dagli amici che lo avevano accompagnato alla corriera e gli avevano fatto coraggio. Tolse dal tascapane una piada impastata e cotta per lui da Maria; l’addentò, tentando di placare il vuoto che gli invadeva il cuore e le viscere. Brevi note d’organo, come gemiti lontani portati dal vento, gli giunsero da una chiesa. La corriera si era fermata a Sogliano.

* * *

L’automobile percorreva veloce e silenziosa la strada bianca, distesa fra prati dal verde lucente e colli coperti da macchie piccole e dense di arbusti, mentre gli alberi scarni si intonavano al cielo tanto fosco da parere una tavola uscita dal pennello di un pittore toscano del ‘300. Girolamo rallentò per osservare alcune vecchie case in pietra sorte all’improvviso dopo una curva, erette in riva al fiume Uso, il torrente che disseta quell’ampia conca. Alcune di esse, abitate solo da cani e galline, mostravano i segni decadenti di un’incuria polverosa. La severa mole del Montefeltro incombeva a delineare la valle: un grande catino alla cui estremità comparve il colle su cui sorgeva Montetiffi. Girolamo, tornando per la prima volta al paese, venticinque anni dopo averlo lasciato, provò un breve affanno che dolcemente gli fece trattenere il respiro. Avvertì il silenzio familiare della valle, un silenzio austero, adatto forse alla meditazione di qualche eremita. A tratti, un refolo di vento agitava le ginestre e le sommità degli alberi, animando l’immobile quadro della natura.

Girolamo era lontano dalla sua elegante abitazione parigina in Faubourg Saint-Germain. Per venticinque anni non aveva pensato a Montetiffi. Credeva di non avervi pensato, dopo i primi mesi di nostalgia acuta in cui aveva vagato triste, con gli occhi bassi, trascinando le scarpe nella polvere dei lungosenna che gli rammentava la polvere delle sue strade di campagna e quella sabbia polverosa che ora scorgeva di nuovo sulla riva del torrente. Più volte si era trovato, solo tra la folla del Quartiere Latino, in rue Galande, fermo a fissare un antico bassorilievo marmoreo raffigurante San Giuliano; era quella la via in cui i pellegrini medioevali si raccoglievano per muovere a piedi in direzione della vicina rue Saint-Jacques e poi verso San Giacomo in Galizia. Anch’egli avrebbe voluto percorrere a piedi quella via per andare verso sud, dove, ne era certo, avrebbe trovato la strada per Montetiffi. Poi lentamente il ricordo si era dissolto. Per tutti era divenuto Jerôme: brillante studente di liceo, universitario alla Sorbona, legale noto e affermato nella scintillante società della capitale. Aveva dimenticato Montetiffi. Talvolta, però, un sentimento vago come un piccolo dolore si faceva strada, sbucava dietro una corte di pensieri, veniva risvegliato da una striscia di luce, dal suono flebile di un’armonica, dal tenue colore sfumato che compariva nel cielo. Era come se, in quel momento, altre luci, altri suoni, altri colori venissero evocati da lontano, risvegliati dal torpore. Tutto, però, finiva lì, perché nella sua mente non c’era posto per i ricordi. Fino a quel primo giorno di primavera in cui Jerôme chiudeva il quarantesimo anno di vita. Parigi non era stata ancora lasciata dai rigori dell’inverno. Il suo cielo striato di cupo era percorso da lunghe veloci greggi di grosse nubi cariche di pioggia sospinte da possenti raffiche di vento. Jerôme aveva pensato a un giorno uguale agli altri con un pensiero in più al tempo che passa. Fin dal mattino, però, si era sentito oppresso dall’angoscia che aveva introdotto nella sua mente un triste pensiero presto mutatosi in presagio di morte, come se quel quarantesimo anno appena concluso fosse l’ultimo concessogli da vivere. L’angoscia continuò a seguirlo tutti i giorni, non lo lasciò un istante, gli diede la certezza della sciagura inevitabile, lo tormentò serrandogli la gola, levandogli il respiro. Non ne parlò agli amici e nemmeno ai familiari: non era solito comunicare a nessuno i propri stati d’animo. Si rese conto che i passi lo spingevano verso il Quartiere Latino oltre la chiesa di Saint-Séverin col piccolo cimitero ad arcate dalle alte cappelle che, viste dal muro di cinta, gli apparvero come monaci col cappuccio rialzato, intenti a un ufficio funebre. Si sentiva sospinto oltre, in rue Galande, sotto il bassorilievo di San Giuliano. Tutto gli apparve più chiaro un giorno di fine marzo, mentre si aggirava vagando nelle prime ore del mattino presso il Carrefour de l’Odeon: gli giunse da un forno l’odore del pane appena cotto. Si precipitò ad acquistare quel pane e lo divorò subito. In quel momento prese forma in lui, un ricordo vivo: era il sapore della piada che mangiava da bambino. Ripensò a suo padre e a sua madre, morti entrambi a quarant’anni, rivide Montetiffi spuntare tra i colli nell’ampia conca di mandorli che ormai erano in fiore. Seguì quel richiamo e partì per Montetiffi il giorno stesso.

Girolamo, giunto nei pressi di Montetiffi, avvertì il senso forte di una gioia che gli riempiva il cuore. Si fermò prima di entrare in paese. Da lontano aveva scorto l’osteria con l’intonaco azzurro ormai stinto e scrostato. Sentì con timore che quel piccolo mondo rischiava di morire per l’incuria e l’oblio, per l’indifferenza che riesce a cancellare anche i ricordi più cari. Non volle che quel timore gli guastasse la gioia del ritorno. Avrebbe riaperto la sua vecchia casa. In quell’istante una parte di lui tornava a vivere. Non sarebbe mai morto il suo paese, il suo piccolo mondo: sarebbe vissuto dentro di lui per sempre ogni volta in cui Montetiffi e la sua gente si fossero affacciati al pensiero.
L’auto si mosse lasciando una scia densa e polverosa. Girolamo tornava in mezzo ai suoi. Forse non tutti lo avevano dimenticato. Solo allora comprese che ovunque, anche a Parigi, non sarebbe stato mai solo.

(1991)

Pierluigi Moressa medico psichiatra, membro ordinario SPI, giornalista pubblicista, è attualmente referente della cultura per il Centro Adriatico di Psicoanalisi. Ha pubblicato numerosi saggi in tema di storia, arte, letteratura. Vive e lavora a Forlì.

 

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