“Via Prampolini 163”, glielo faceva ripetere con insistenza finché venne il giorno fatidico dell'inizio della scuola: prima elementare, scuola Giovanni Pascoli, lontana da casa, fuori dal cortile. Gliela mostrava ogni volta che ci passavano davanti sottolineando “Sarà la tua scuola”, ma lei non ci faceva molto caso, o forse non aveva capito che ci sarebbe dovuta andare ogni santo giorno per chissà quanto tempo. Del resto cosa ci si può aspettare da una bambina di 6 anni, che non essendo mai andata all'asilo, aveva trascorso gli anni di cui aveva memoria giocando nel cortile di casa?
Le scuole allora iniziavano tardi e quindi i giochi estivi si protraevano fino a che c'era un po' di sole e quella mattina, 16 ottobre, ce n'era ancora. Ricordava vividamente che quando sua madre la svegliò, stava sognando di giocare con la sua amica Brunella in cortile e già litigavano su quale gioco fare o per qualunque altra ragione, tanto poi il mattino dopo avrebbero ricominciato daccapo. Ancora nel dormiveglia cominciò a protestare “ma come, sono appena scesa e già mi chiamano su?”. La madre, seduta sul suo lettino, la scuoteva delicatamente dicendole di alzarsi, di fare in fretta che era il primo giorno di scuola e bisognava sbrigarsi! La mamma sembrava felice, eccitata. Lei guardò il sole ancora così limpido e caldo fuori e proprio non voleva alzarsi per andare a scuola: non voleva perdersi quella mattina di giochi!
In breve furono giù in strada, pronte. La mamma la teneva saldamente per mano e le ripeteva che non doveva dimenticare mai l'indirizzo di casa, altrimenti si sarebbe persa e sarebbero potute accadere tutte le cose terribili che accadevano fuori casa. Cose spaventose: essere da sola per strada, non riuscire più a trovare la via, cadere nelle mani di zingari e uomini neri, come sua madre la minacciava sempre.
Era nata là, in via Prampolini al numero 163 in un condominio degli anni 20 a tre piani con 6 appartamenti, due per piano, solai, cantine, un cortile e un giardino, il cui accesso era riservato ai signori Pradelli, i più ricchi della casa, quelli del piano nobile, che avevano anche l'orto con il vigneto, con la più dolce uva “galletta” che avesse mai mangiato e” rubato” in vita sua e le due terrazze grandi, una sul davanti della casa e una sul retro. L'appartamento dei suoi era invece al primo piano sulla destra appena entrati dal pesante portone di legno, in mezzo al quale una volta Brunella si era schiacciata le dita malamente. Le finestre di casa sua davano sul cortile, mentre quelle del maestro Brutti, padre e marito, davano sul giardinetto. Il cortile era delimitato da sei alberi non alti, tre per lato, ideali per giocare a quattro cantoni, ruba bandiera e altri giochi di moda in quegli anni. Il cancello grande, un pò arrugginito, che dava sulla via Prampolini, era aperto giorno e notte, anche se gli adulti si raccomandavano sempre di stare attenti a non uscire, perché passavano le macchine!
In realtà il passaggio di una macchina era un evento abbastanza raro, passavano piuttosto silenziose biciclette, carretti, qualche moto e, una volta la settimana, i cadetti dell'Accademia MIlitare, a cavallo. Venivano annunciati da un rumore insolito, che si ingrossava un po' minaccioso man mano che si avvicinavano. C'era sempre un attimo di attesa ansiosa, prima che sua madre dicesse sollevata “Ah, sono i cadetti!”, come se prima avesse dovuto decidere “non sono bombe, non è Pippo”, il famigerato bombardiere inglese che aveva terrorizzato la città, malgrado il nome da cartone animato, “non sono i nazisti”, terrore di sua madre e non solo suo, “non sono i fascisti”, nomi tutti spaventosi, come l'uomo nero e gli zingari che nell'immaginario di sua madre, erano rapitori di bambine disobbedienti.
Fugati tutti i timori, il viso di sua madre si distendeva, allora correvano eccitate ad affacciarsi alla finestra che dava sulla Via Prampolini e li guardavano sfilare impettiti sui loro bellissimi cavalli, eleganti nelle uniformi, ordinati e sincronizzati in un trotto da parata. La madre ripeteva ogni volta emozionata “Vanno verso i campi per le esercitazioni!”. Restavano alla finestra fino a quando il rumore si faceva distante e le code degli ultimi cavalli cominciavano a svanire alla vista, poi tornavano in cucina, dove c'era sempre qualcosa in corso che avevano lasciato in fretta: compiti da fare, cibi da cuocere, lettere da scrivere ai parenti lontani, soprattutto al povero zio Osvaldo, emigrato addirittura in Venezuela, in realtà il più ricco di tutti loro, ma solo e lontano, oltre chissà quale mare grande come un oceano, in un paese raggiungibile solo in aereo. Lo sentivano al telefono una volta all'anno, riuniti per tempo a casa della zia Doralba, l'unica ad avere il telefono, intorno al quale si sedevano tutti, ognuno pronto a dirgli solo una parola veloce, perché un minuto di telefonata costava un patrimonio! La nonna piangeva, le zie erano emozionate, gli zii virilmente contenuti e seri, i bambini eccitati, ma silenziosi, fino a che la telefonata finiva e potevano disperdersi nelle stanze della casa della zia, grande abbastanza per correre e giocare fino all'ora di andare a casa a piedi e poi subito a letto, perché si era fatto tardi.
Erano anni di povertà: la loro casa era piccola e fredda, esposta a nord tanto che durante l'inverno la stanza da letto dei suoi genitori, al mattino, aveva i vetri delle finestre decorati di fiori di ghiaccio, bellissimi. La chiamavano familiarmente “La Siberia”. Nella Siberia bisognava vestirsi e svestirsi in fretta, tutti battevano i denti per farsi coraggio, ma anche ridevano e così superavano il primo impatto con il mattino gelido. La sera, al momento di andare a letto, si rifugiavano velocemente sotto le coperte al tepore del “prete”, strano oggetto che scaldava troppo la parte centrale del letto e qualche volta bruciava le lenzuola o le coperte, lasciando invece gelati il cuscino e i piedi. Sdraiarsi completamente richiedeva una decisione simile a quella di tuffarsi in mare, quando l’acqua è fredda. Prima di andare sotto le coperte, doveva passare la madre o un altro adulto, a togliere con cautela il prete con la padella delle braci ormai ridotte a cenere. Perché poi si chiamasse prete era per lei un mistero. Nessun adulto sembrava disposto a spiegarglielo, qualcuno ridacchiava, al massimo aggiungendo che erano cose da grandi, altri le dicevano di non seccare con le domande. Così questa era un’altra di quelle parole che raccoglieva pensando che un giorno forse avrebbe trovato il libro giusto che le svelasse tutti i segreti delle parole degli adulti e del loro mondo.
Se la sera era una corsa andare a letto, la mattina bisognava correre in fretta in cucina, l'unico luogo riscaldato della casa, quello dove si svolgevano tutte le attività quotidiane più importanti: cucinare, mangiare, fare i compiti e i conti del negozio, ascoltare la radio, ricevere ospiti e parenti, vestirsi e svestirsi, fare il bagno nella tinozza il sabato sera. Tutti lasciavano i vestiti dismessi la sera prima, sullo schienale della sedia in cucina, dove li avrebbero ritrovati il mattino seguente, appena un po' meno gelati dei cappotti appesi nell'ingressino antistante la Siberia.
C'era poi una minuscola saletta da pranzo che conteneva anche il letto del fratello, trasformato di giorno in divano con i cuscini che dovevano essere sempre ben disposti e se appena qualcuno li sgualciva, sua madre con pochi sapienti tocchi li sprimacciava, rimettendoli a posto. Lì c'erano i mobili lucidi di legno massiccio, dono di nozze di una zia della madre. I mobili avevano decorazioni di frutti di metallo sugli schienali delle sedie alte e pesanti e sugli sportelli del buffet e del contro-buffet. Il tavolo era quadrato con un gioco di gambe complesso in mezzo alle quali lei si nascondeva, quando non voleva farsi trovare da nessuno e credeva di diventare magicamente invisibile. Da lì ascoltava gli incomprensibili discorsi degli adulti e cullava le sue tristezze infantili, quando si sentiva come la piccola fiammiferaia della fiaba.
Il maestro Brutti abitava al primo piano nell'appartamento di fronte al loro, tornava a casa verso le 13.30 e ricominciava a lavorare verso le 15, dopo avere pranzato e fatto un breve riposino, che quasi tutti gli adulti facevano allora. In quell’ora dopo pranzo, i bambini dovevano fare silenzio assoluto o meglio ancora dormire anche loro! Il lavoro pomeridiano del maestro consisteva nel ricevere scolari “zucconi”, diceva sua madre, e insegnare loro quello che non riuscivano ad imparare a scuola e questo fruttava al maestro moltissimi soldi, secondo la mamma, che fantasticava sempre dei guadagni favolosi degli altri. Gli scolari si susseguivano per tutto il pomeriggio, entravano con la faccia cupa e uscivano spesso con le orecchie rosse e di gran corsa, come scappassero da un supplizio. In effetti il supplizio c'era ed erano le tirate di orecchie del maestro, che al tormento delle orecchie poteva aggiungere pizzicotti, scappellotti, e altro, ma mai grida. I due figli del maestro erano silenziosi come il padre e non assomigliavano agli altri bambini. Parlavano poco, ma facevano strani dispetti: una volta Fausto, il minore, aveva teso un sottile filo metallico sotto il portico, agganciandolo saldamente ai due lati opposti in orizzontale, così quando suo fratello Giorgio era arrivato di gran volata sulla sua carriola (era il gioco preferito di tutti i ragazzetti, compresi suo fratello e i suoi amici) era stato quasi decollato da quel filo teso ad arte. Nessuno aveva riso, per la crudeltà dello scherzo, eccetto Fausto che spiava da dietro la tenda della cucina con un'espressione malvagia sulla faccia. La signora Rosa, madre di Giorgio e Fausto e moglie del maestro Brutti, era una donna di età indefinibile, ma certamente non giovane, anzi più grande della sua mamma. Era sempre “pitturata”, cioè con il rossetto sbavato sulle labbra e gli occhi bistrati, i capelli, che dovevano essere stati neri, lo erano ancora, ma di un colore artificiale e con un grosso rigo bianco alla base. Malgrado una pancia prominente, la signora Rosa portava quasi esclusivamente gonne corte e vestiti stretti e scollati che lasciavano intravvedere i suoi grandi seni, che debordavano dalle camicette aperte sul davanti. Al minimo complimento si scioglieva e, secondo la mamma, una volta aveva seguito due soldatini che le avevano incautamente detto qualcosa o lei aveva immaginato che lo facessero, mentre stavano solo prendendola in giro. Tornata indietro, dopo averli seguiti per un tratto di strada, raccontò raggiante che quel giorno era particolarmente in forma, si sentiva snella e giovane! Sua madre commentò che era sempre stata così, fin da giovane, quando negli anni bui del fascismo, si era messa nei guai. Suo padre, di solito estraneo a queste chiacchiere, si era limitato ad aggiungere che per forza si era messa nei guai, lei e la sua famiglia: era diventata l'amante di un tale, noto picchiatore fascista. Lei non aveva capito proprio tutto, ma aveva compreso che erano cose molto da grandi e non aveva fatto altre domande.
Dalla parte opposta del cancello, all'interno del cortile, c'era “il magazzino del signor Savona”.
Il magazzino era un luogo misterioso, nel quale i bambini non dovevano entrare. Il pericolo era rappresentato da supposti ordigni bellici di cui il proprietario aveva fatto incetta, vagheggiando guadagni strepitosi a guerra finita. Un altro aggeggio di proprietà del signor Savona era un enorme container lungo più di tre metri, dall'ampio diametro, di forma cilindrica, che giacque per anni nel giardinetto sul retro. I bambini lo chiamavano familiarmente “il coso” e ci giocavano a nascondino, dietro a volte ci facevano anche qualche bisogno urgente, quando non volevano perdere tempo e interrompere il gioco salendo in casa per andare in bagno. Il “coso” arrugginì e fu poi ceduto forse con qualche guadagno per il signor Savona, un uomo diverso dagli altri padri di famiglia, con le dita ingiallite dal fumo perenne della sigaretta accesa nel bocchino, i capelli lucidi e impomatati, che faceva uno strano, affascinante mestiere notturno: l’operatore cinematografico. Ma soprattutto viveva con la Bruna dell’ultimo piano. La Bruna aveva fatto “il mestiere in una di quelle case, che anche se ora le avevano chiuse, chi c'era stata non smetteva mai”. Questo bisbigliavano le mamme quando capitava che si riunissero in cortile o quando si fermavano a chiacchierare sul pianerottolo davanti alla porta di casa socchiusa. Non era per nulla chiaro di quali case parlassero né tanto meno di quale mestiere e nessun adulto sembrava disposto a rispondere alle sue domande: anzi in genere le lanciavano un'occhiataccia o un “zitta tu, che sei piccola!”, rafforzando in lei l'idea che il mondo degli adulti fosse molto misterioso, che occorresse aspettare di essere grandi per capire e che era inutile chiedere anche ai bambini perché non lo sapevano, neanche i più esperti! Quelli che azzardavano ipotesi, poi, non erano per niente convincenti.
Alcune signore dicevano con aria severa, che era uno scandalo, che quelle cose non dovevano esistere: ma non era chiaro cosa. Neppure suo fratello sembrava essere informato sul tema e nessuno dei cugini: alzavano le spalle oppure dicevano “cose sporche”.
La signora Bruna abitava con Gianni, il figlio minore, e Gianna, la maggiore, i quali erano figli suoi, ma non del signor Savona. Quando chiedeva dove era il loro padre, le veniva detto con tono misterioso che nessuno lo sapeva, chissà forse era stata colpa della guerra, altro tema misterioso, di cui l'unica cosa chiara era che prima della guerra i suoi genitori erano giovani e benestanti, sua mamma aveva persino la pelliccia e molti vestiti eleganti, e suo padre un camioncino per il negozio, ma poi era venuta la guerra e a questo punto i sospiri, i “ma”, i “pazienza, era destino” sostituivano le parole, fino a che sua madre si incupiva e si chiudeva nel silenzio. Segno evidente che la guerra doveva essere una gran brutta cosa e che era meglio non nominarla. Ci pensavano già gli altri a nominarla, quando si incontravano per strada e si fermavano a lungo a raccontarsi di bombardamenti e altre disgrazie, oppure quando nelle sere d'autunno si riunivano intorno al camino in campagna e parlavano tutta la sera mangiando caldarroste. L'argomento preferito era appunto la guerra. I contadini della zia, i Lancillotti e i Salvalai avevano idee diverse sulla guerra e la nonna, che accompagnava tutti i nipoti nella casa di campagna, nell'ultima settimana di vacanza prima dell'inizio della scuola, ne aveva un'altra ancora. Per tutti era una cosa terribile, ma mentre i Lancillotti avevano i loro eroi, i partigiani, e i loro nemici, i fascisti (anzi i fassisti) e i nazisti, i Salvalai erano più cauti, come la nonna, e non sapevano dire chi fossero i buoni e chi i cattivi. Così lei spesso se ne andava a letto con quella domanda senza risposta che la teneva sveglia e le faceva venire un nodo in gola, fino a che si addormentava con l'angosciosa questione irrisolta: chi erano i buoni? Dove erano? Erano tutti cattivi? Partigiani, fassisti, nazisti? e gli americani?
Ma torniamo al cortile di via Prampolini.
Gianna scendeva raramente in cortile a giocare, perché più grandicella degli altri bambini. Le poche volte che capitava, quasi immancabilmente veniva richiamata in casa dalla madre, la Bruna, che le imponeva di salire, perché il padre la voleva.
La reazione di Gianna, solitamente un pò imbambolata e succube, era allora di dispetto e irritazione, ma il tentativo di opporsi era breve, cedeva sbuffando e obbediva. Il tempo per i giochi per lei sembrava sempre un furto. Cosa dovesse fare in casa, quando tutti i bambini avevano il permesso di giocare, era un mistero. C’era un'aria di sospetto nel condominio, o forse una certezza su cui nessuno degli adulti amava soffermarsi. Vi facevano riferimento con silenzi, bisbigli interrotti all'arrivo dei bambini, occhiate. I grandi dovevano sapere cosa accadeva nell’appartamento all’ultimo piano, ma lei no e lo scoprì solo anni dopo, quando era ormai una ragazza e Gianna era ormai stata apertamente avviata alla prostituzione dalla madre, dopo vari fidanzamenti che si consumavano e probabilmente si concludevano nel sottoscala di accesso alle cantine.
Uno dei fidanzati, più sprovveduto degli altri, l’aveva addirittura sposata, non essendosi reso conto con chi avesse a che fare, se non a cose già fatte, e dopo che erano nati due gemellini, probabilmente non figli suoi.
Strano condominio quello di via Prampolini 163, dove le distinzioni di classe e di scala sociale avevano trovato una loro dislocazione: il primo piano era abitato da una piccola borghesia lavoratrice, i suoi e il maestro Brutti, al piano nobile i fratelli Pradelli e i Pedretti. I primi, due maschi e una femmina, avevano ereditato dal padre una fabbrichetta, tutti non sposati e dediti alla vecchia madre, sempre sorridente, ma muta e demente. La signorina Pradelli, unica femmina, la accudiva come una bambolina e così la chiamava, cosa che doveva avere dato il colpo di grazia alla fragile memoria della vecchia madre e alla incapacità di vivere della figlia.
La signorina Pradelli parlava in continuazione, in genere cominciava dal racconto della giornata della madre, poi passava ad elogiare il fratello minore che adorava e più raramente, con deferenza e timore, accennava al maggiore, vero pater familias, che venerava e temeva come una divinità severa e distante.
Di fronte a loro abitavano i Pedretti, famiglia composta da un impiegato taciturno e frustrato, che ricorrentemente picchiava moglie e figlio, ma sempre nel più rigoroso silenzio. Una volta le capitò di aprire la porta di casa, quando già lei e i suoi vivevano al piano nobile, di fronte ai Pedretti, e di vedere il padre che sulla soglia di casa prendeva a pugni il figlio, detto Foglia Secca dagli amici, per via dei capelli rossi e della pelle lentigginosa. In silenzio, però, forse per non farsi sentire dai vicini, per nessuno dei quali per altro era un mistero cosa accadesse in quella famiglia.
All'ultimo piano, oltre alla Bruna e alla sua famiglia, stavano gli Zucchi, quattro o forse cinque, tutti lavoratori e nessuno studente, malgrado la giovane età, cosa per lei molto strana allora. Sorridenti, operosi e simpatici, li si vedeva solo al mattino molto presto e la sera tardi, ore per lei impraticabili, perciò non ne sapeva molto.
Le cantine e i solai erano luoghi affascinanti, ma pericolosi, perché sia al piano terra, al quale si scendeva con una scala di pochi gradini, sia nei solai si svolgeva una vita particolare. Ci voleva una chiave molto grossa, che stava sempre appesa al portachiavi di legno in cucina, per andare in cantina, dove c'erano la legna, il carbone e le biciclette. La loro cantina era sulla destra in una piccola rientranza, dove una volta Gianni, il figlio della Bruna, l'aveva intrappolata con la sua bicicletta con la scusa di fare un gioco nuovo, che consisteva nel prendere in mano una cosa che aveva lui. Lei doveva avere tre o quattro anni al massimo, a giudicare dall'appartamento in cui vivevano, e non capiva bene di che gioco si trattasse: quella cosa aveva la consistenza di un rotolino di pasta, come quelli che le dava la mamma per farla stare buona, quando tirava la sfoglia, e che dopo poco diventavano grigi e ruvidi, mentre la pastella della mamma si stendeva splendida sul tagliere. Lei comunque non si divertì molto a quel gioco e non volle continuare. Per fortuna qualcuno la chiamò e scappò via, senza che Gianni facesse nulla per trattenerla.
Qualche volta il signor Savona dormiva nella lavanderia, accanto alle cantine, quando la Bruna lo cacciava di casa, diceva sua madre alle altre signore, e questo aumentava il mistero intorno al signor Savona e alle cantine.
In cantina si poteva essere mandati di giorno per punizione a prendere qualcosa che i grandi si erano dimenticati: allora si svolgeva una gara, a volte con la moneta, tra suo fratello e lei e, se lei perdeva, le toccava scendere in quel luogo di paura, buio e umido. La sera nessuno dei bambini ci veniva mandato, anche per via della Gianna con i suoi fidanzati stesi su una coperta nel sottoscala. La paura di giorno era dovuta ai ragni, ai topi che potevano nascondersi in mezzo alla legna e ad altro, non nominato, ma che poteva sempre esserci! Perciò non ci si poteva andare se non c'era qualcuno in casa. Non era chiara la natura del pericolo: per sua madre al primo posto c'erano le zingare ruba bambini e gli uomini sconosciuti, a ciò suo padre aggiungeva con un tono laconico, che bisognava stare attenti perché non si sa mai. Accanto alle cantine c'era la lavanderia comune, luogo di lavatura quindicinale delle lenzuola prima dell'avvento delle lavatrici. Lì si scendeva con la mamma o la domestica di turno: le donne si davano appuntamento e cominciavano a faticare e a chiacchierare spesso scoppiando in grandi risate, anche se non sempre le era chiara la causa delle loro risate. Più avanti divenne un luogo di incontro per i primi giochi del dottore con Puccio, il bambino più carino del vicinato, figlio di un maresciallo dei carabinieri, ma la cosa durò poco, perché troppo peccaminosa, dato che si avvicinava ormai il tempo della prima comunione per entrambi.
Se le cantine erano un luogo di paura perché buie, vicine alla strada e per quello che “non si sapeva mai” i solai erano un luogo di mistero, ma per ragioni diverse. Così lei si andava facendo l'idea che molto in basso e molto in alto accadessero cose che non riguardavano la vita di tutti i giorni, bensì cose speciali che andavano dal mistero pericoloso al mistero favoloso.
All'ultimo piano, lei e la madre accompagnavano ogni sera a dormire nel loro solaio bellissimo, ben arredato con i mobili ereditati da una qualche nonna o zia, la tata di turno, di solito una ragazzotta che la mamma reclutava in campagna presso lontani parenti o amici, perché l'aiutasse in casa e si occupasse di lei e del fratello. La mamma smise di cercare ragazze e passò a donne in età o addirittura vecchie, non appena suo fratello diede segni di essere cresciuto, dicendo che non si potevano lasciare mai a casa da soli, suo fratello e la ragazzotta di turno, perché quelle potevano rovinargli la vita. Tutto ciò trovava un bassissimo livello di comprensione in lei, ma le suscitava allarme e paura: poteva comunque capitare qualcosa di terribile, connesso con la vita di suo fratello e di tutti loro. Nei racconti di sua madre c'era sempre un sacco di gente che si era rovinata la vita, per via di quelle cose là e tanto doveva bastare. Suo fratello aveva l'aria di capirci di più e in genere si difendeva dicendo “Ma va là, cosa dici?” e chiudeva la conversazione. Comunque a lei nessuno spiegava niente.
Accanto alla loro soffitta ce ne erano altre due: una rimase a lungo disabitata, fino a quando la tata Gina, che stava dalla zia Doralba da quando aveva 13 o al massimo 14 anni, e aveva visto crescere quasi tutti i cugini, cominciò ad avere dei fidanzati. Ormai era un po' tardi, diceva la mamma, e poi aggiungeva che con quei baffi e quelle gambe che fidanzati pretendeva di avere?! Quando pensava lei non ascoltasse, parlando con altre signore, aggiungeva che se li portava a letto, sperando di incastrarli. E ad un certo punto riuscì ad incastrarne uno, se lo sposò e fece una bambina, luce degli occhi suoi!
Nella soffitta a sinistra della loro, ci stavano Riccardo e la Carolina. Erano entrambi piuttosto vecchi e un po' strani: Riccardo non si vedeva sempre e quando spariva la mamma diceva, ridacchiando, che andava in viaggio d'affari. Da questi viaggi tornava sempre allegro, cantando e fingendo di suonare il violino con il suo bastone da passeggio. Allora si fermava ad intrattenere i bambini che giocavano in cortile, raccontando storie bizzarre, di avventure improbabili. A volte tornava con un bidone di latta da cui uscivano lumache e raccontava felice che avrebbe fatto una cena raffinata; altre volte offriva frittelle fatte da lui stesso, che la mamma le aveva detto di non accettare mai! Una volta che la signora Rosa, golosissima, ne aveva accettata una, al primo boccone le era rimasta in bocca una coda di topo! Ricordavano ancora tutti ridendo le grandissime urla che aveva lanciato la signora Rosa, tali da fare uscire di corsa dal suo studio il maestro, seguito da un allievo con le orecchie paonazze.
Carolina era la moglie di Riccardo, dormivano insieme lassù in soffitta, ma lei rientrava solo la sera e usciva il mattino molto presto, per attraversare la strada e andare a lavorare dai signori Galassi, che abitavano nella casa di fronte. “La Carolina ha sposato i Galassi”, diceva sua madre, non certo Riccardo, il quale rimaneva nel suo antro, dove si rifugiava a smaltire le fatiche dei suoi viaggi d'affari! Era comunque simpatico e non pericoloso, solo fantasioso.
Quando già abitavano al piano cosiddetto nobile, vennero altri a vivere nel loro appartamento al primo piano, una famiglia di tre persone, padre, madre e una figlia, che divenne sua amica, ma anche quella era una famiglia un po' diversa. Ogni tanto si sentivano urla e pianti provenire di là: il padre dormiva tutta la mattina, perché lavorava di sera. Lui non era operatore, come il signor Savona, ma direttore di sala di un cinema. Anche lui aveva sempre una sigaretta accesa in un lungo bocchino e le dita ingiallite dal fumo. Lo si vedeva solo ad ore strane e non faceva mai complimenti né scherzava con i bambini, mentre Gloria, sua figlia, appena lo vedeva, si irrigidiva e correva a salutarlo. Una sera d'estate le urla si sentivano più forti del solito per via delle finestre aperte. In casa sua, dopo che i maschi erano usciti, si era riunita una piccola folla di mamme e bambini dei condomini confinanti, tutti spaventati e preoccupati. Poi, dopo che la porta di quella infelice casa ebbe sbattuto violentemente, cadde un silenzio pesante. Le mamme cominciarono a consultarsi se fosse o meno opportuno andare a sentire se avevano bisogno di qualcosa. Alla fine decisero di mandare lei, amica di Gloria, e lei ci andò terrorizzata, ma forte del compito che le era stato assegnato. Suonò, dopo un po' sentì Gloria che veniva ad aprire, era in lacrime, tremante, la fece entrare in cucina. Invece della bella cucina ordinata che ben conosceva, c'era cibo per terra, la tovaglia aggrovigliata sul tavolo ancora con i resti della cena non consumata. Pensò molto in fretta se tutto quel disastro potesse essere stato provocato dal fatto che la cena non era piaciuta al signor Mario, papà di Gloria. La madre di Gloria, seduta in un angolo, singhiozzava, Gloria si sedette di fronte a lei, anche lei scossa dai singhiozzi. Nessuna delle due parlava, lei sapeva di dover riferire il messaggio delle mamme radunate nella cucina di casa sua, in attesa tra curiosità morbosa e preoccupazione. Dopo pochi interminabili minuti, salutò e uscì, poi di corsa, con il cuore in gola raggiunse casa sua e non seppe cosa dire, se non mettersi a piangere anche lei, fino a che la madre la consolò con un dolcetto, mentre le altre donne parlando sommessamente, ad una ad una, se ne andarono con i loro bimbetti intristiti e piagnucolosi.
Sua madre sembrava giustificare la prepotenza del papà di Gloria, insinuando sottovoce nel cerchio delle signore riunite in cortile, che della mamma di Gloria, la signora Gigliola, si diceva che fosse stata una gran ”battidora”1, ma non era mai stata la “pratica”2 di nessuno. Il bisbigliare delle signore tradiva che si parlava di cose “brutte”, anche se quale fosse il significato di quelle due parole era un vero mistero e tale rimase per lei molto a lungo.
Quando aveva provato a chiedere delucidazioni ad una amichetta in cortile, si era sentita dire “Ma dai, lo sanno tutti!”. Per questo aveva deciso di mascherare la sua ignoranza e di non chiedere più nulla. Ci sarebbero voluti anni prima che per caso qualcuno le rivelasse il mistero di quelle due parole. Certo non doveva essere stata una buona idea chiederlo alla signora Bruna, che era anche lei avvolta da un mistero e neanche a Marcello, il figlio della signora Maranelli, il cui fratello maggiore Franco era medico, o meglio era studente di medicina, ma di fatto tutti lo consideravano medico fatto e finito a cominciare da sua madre, la levatrice, per la quale era nato medico. Il fatto è che Marcello non lo sapeva e Franco, suo fratello, interpellato da lui, doveva averlo detto a sua madre, che lo aveva detto a qualcun altro fino a che la cosa era giunta all'orecchio della signora Gigliola, che era risalita alla fonte, cioè a lei. L'aveva fermata per strada rimproverandola di usare parole di cui non conosceva il significato (il che era profondamente vero). Questo le provocò un malessere terribile, che durò giorni, togliendole l'appetito e il sorriso. Sua madre cominciava a preoccuparsi seriamente, quando il tutto si concluse con una febbre da cavallo che passò in un giorno. Negli incubi della febbre alta, l'armadio della Siberia diventava enorme e rischiava di precipitarle addosso, poi, quando la catastrofe era ormai inevitabile, tornava al suo posto e lei si svegliava con il sentimento di avere fatto qualcosa di terribile e di non sapere come rimediare. A poco valeva la sua difesa silenziosa, che lei aveva solo ripetuto le parole di sua madre! E perché la signora Gigliola non ne aveva parlato con sua madre, invece di prendersela con lei, che era poco più che una bambina?!
L'episodio le rimase stampato dentro in maniera indelebile, dandole la misura del guaio che doveva avere causato nelle relazioni condominiali, anche se sua mamma e la signora Gigliola continuavano a chiacchierare, ma meno spesso e mai da sole, quando accadeva che si incontrassero sulle scale del condominio o in cortile.
La domenica si concludeva solitamente con la inevitabile delusione di suo padre e conseguentemente di tutta la famiglia, chi più chi meno, perché la schedina lo aveva tradito, ancora una volta. Non avevano vinto, non avrebbero cambiato vita neppure quella settimana, ma tutto sarebbe ricominciato il sabato successivo e l'attesa eccitata sarebbe serpeggiata in famiglia sino alla domenica pomeriggio. Con la delusione serale si ritornava sulla terra e ci si poteva preparare, i più giovani facevano i compiti, gli adulti organizzavano mentalmente gli impegni del giorno dopo. Tutti erano un po' tristi e rassegnati.
Solo da adulta lei si sarebbe liberata di quella strana stupida schiavitù, forse insieme a mezza Italia, mentre fino ad un certo punto avrebbe giurato che l'intero condominio vivesse la stessa attesa della sua famiglia. Probabilmente faceva parte dell'attesa anche la segreta speranza che “Per carità, non vincessero i vicini di casa!” Non sarebbe stato tollerabile!
A quei tempi non esisteva televisione, la radio era ancora un oggetto ingombrante, che si accendeva girando le manopole fino a quando si trovava una stazione, altrimenti bisognava rassegnarsi a sentire male, a tratti, a sprazzi, a scoppiettii fino a quando il rumore diveniva insopportabile e occorreva rassegnarsi a chiudere. Ci sarebbero voluti anni perché lei scoprisse che le manopole, sostituite in genere da pulsanti su cui cliccare, si potevano girare con una finalità, quella cioè di trovare la frequenza giusta per il segnale su cui si stava cercando di sintonizzarsi. Nel suo magico mondo infantile qualcuno era più fortunato, generalmente suo padre e suo fratello, mentre lei e la madre lo erano meno. Chissà perché nessuno le aveva mai semplicemente spiegato che esistono le stazioni, o forse glielo avevano detto, ma lei non aveva ascoltato, rimanendo chiusa nell'universo di magie, fortune e sfortune, espedienti e trucchi, che occorreva imparare per non sbagliare e incorrere in pericolose trasgressioni. Era il mondo magico di sua madre, che da adulta lei avrebbe considerato l'ultimo esemplare pagano in un paese cattolico. C'erano infatti per sua madre infinite regole che bisognava rispettare per evitare che piovesse, grandinasse, ci si ammalasse, non ricrescessero più i capelli e le unghie, se erano stati tagliati nei giorni sbagliati, i pomodori e altre delizie, se piantati in luna calante e non crescente.
Ogni evento, pericoloso o meno non importava, aveva un suo cerimoniale, rispettare il quale era garanzia di successo, ma lei non riusciva a ricordarseli tutti ed era spesso molto scoraggiata per questo. Non avrebbe mai avuto la sicurezza di sua madre nel maneggiare quella materia complessa, non avrebbe mai saputo a quale santo si poteva chiedere una cosa o l'altra, e cosa si doveva fare nel caso se ne fosse offeso uno importante, sbagliando cerimonia!
Ricordava con quanta partecipazione, la madre e lei correvano in cortile, sotto al portico, appena minacciava un temporale estivo, con le tenaglie, la scatola dei fiammiferi e un ramo di vischio, conservato da capodanno e appeso sullo stipite della porta della cucina come portafortuna. Vischio e tenaglie dovevano essere incrociati e poi vi si doveva dare fuoco, pronunciando qualche formula d'occasione. Questo avrebbe scongiurato che la pioggia portasse grandine e questa devastasse i campi e il raccolto. Ma di chi? Dei Salvalai, dei Lancillotti? Non certo i loro, dato che non ne avevano!
Una volta al mese la mamma andava dalla parrucchiera. Le botteghe delle parrucchiere, a quei tempi, avevano l'ingresso sulla strada principale, con tre gradini per accedervi. Le parrucchiere si chiamavano generalmente Iolanda, Aida, Gilda o nomi simili, presi dalle opere più famose. Lei e la mamma ci andavano quando sua mamma doveva fare cose importanti come la permanente e più avanti la tinta, oppure quando lei doveva tagliarsi i capelli. Per risparmiare e andare meno spesso, sua madre le faceva tagliare i capelli cortissimi, soprattutto sulla nuca, cosa che lei detestava, ma non c'era modo di convincerla. Il salone della parrucchiera era un luogo molto interessante, pieno di caschi appesi al soffitto o che si potevano spostare sulle ruote, di specchi, di carrelli colmi di beccucci, bigodini, pettini, spazzole etc. Le signore, in genere mamme di sue amiche, si intrattenevano chiacchierando e lei si distraeva fingendo di essere l'aiutante della parrucchiera, che le passava i becchi o il pettine più adatto al momento.
Una volta l’Aida, la parrucchiera di sua mamma, dopo le solite chiacchiere e le ricette di cucina, si era messa a raccontare di quella sua bambina, bellissima, così piccola. Lei l'aveva vestita come una principessa, distesa nella piccola bara. Ogni mattina la portava in negozio e la sera la riportava nella camera da letto e la accarezzava e la cullava e, se gliela avessero lasciata, se la sarebbe tenuta per sempre tra le braccia la sua bambolina di ghiaccio!
Da adulta, ricordando quell'episodio, le era capitato di pensare quanto tempo se la era tenuta in casa: un giorno, due, tre? Un tempo breve diventato nel ricordo della Aida infinito. Quel giorno le mamme avevano smesso di chiacchierare e ridere, intorno era sceso un silenzio profondo. Quando erano uscite, sua madre l’aveva abbracciata quasi a proteggerla dal freddo di quel pomeriggio di inverno e durante tutto il tragitto fino a casa ogni tanto diceva sospirando “Mah...”
Anni dopo, sfogliando un album di foto di famiglia, aveva trovato una vecchia foto in bianco e nero, che raffigurava un gruppo in gita in una cappella non lontano dalla città. C'era nella foto una neonata in braccio ad una mamma giovane e sorridente.
Sul retro sua madre aveva scritto: gita votiva a San Gemignano, “per grazia ricevuta, i condomini di via Prampolini 163, tutti sopravvissuti alla guerra”.
1: Termine dialettale per indicare una donna di facili costumi.
2:Termine dialettale per indicare l’amante.
Paola Golinelli è analista con funzioni di Training della SPI e dell’IPA. Già membro dell’IPA Committee di Psychoanalysis in Culture, ha pubblicato il volume Riflessioni psicoanalitiche sulla scrittura, il cinema e l’arte (Franco Angeli, 2021), uscito presso Routledge (2020) con il titolo Psychoanalytic Reflections on Writing, Cinema and the Arts.