Il temporale, il primo dell’estate, si allontanava sotto la spinta di una brezza lieve. Le pozzanghere rilucevano sotto il sole di luglio, e il viale d’ingresso all’ospedale era una colata di oro fuso che veniva incontro ai primi visitatori della sera. Alla luce del tramonto, che tracciava più netti i margini dei tre padiglioni, l’ospedale mostrava i vecchi muri coperti di chiazze di pioggia, come scorticati dall’uragano. Intorno, i tigli del parco, piantati tra le aiuole o disposti a scandire i lunghi viali, quasi oscure gallerie, gocciolavano dalle foglie stille di pioggia profumata, evocando una tardiva fioritura. In basso, lontana, si scorgeva la città, distesa nella pianura aperta e spaziosa, immersa in una nuvola di risorto calore, che avvolgeva i condomini di periferia e la torre civica coi tre campanili, vicini come matite disposte in un bicchiere. Dall’ospedale, costruito su un’altura presso la confluenza di due fiumi, si dominavano l’afa e le nebbie della pianura. Lassù l’aria era buona, e qualcuno, tanti anni prima, aveva stabilito di costruirvi un sanatorio per i malati di tisi. Quasi nessuno dei dipendenti si ricordava del vecchio sanatorio, ormai trasformato in un policlinico moderno.

Forse uno degli ultimi ad avervi lavorato era quell’uomo dai capelli grigi e dalle membra asciutte, che avanzava un po’ curvo, vestito della bianca divisa da barelliere, tra i viali alberati e i piazzali inondati di luce. Appariva assorto, come se stesse cercando qualcosa più dentro di sé che intorno. A un tratto, parve riscuotersi, sentendosi chiamare per nome: “Cristoforo! Siamo arrivati al traguardo…”

Era Benedetto, il vecchio primario, giunto al sanatorio pochi mesi dopo di lui; gli rammentava che per entrambi quello era l’ultimo giorno di lavoro prima della pensione.

Cristoforo e Benedetto erano subito diventati amici. Si erano incontrati nel reparto per la cura dei bambini: il giardino d’infanzia di quel villaggio fuori dal mondo. Entrambi vi avevano trascorso lunghi anni, condividendo il male di quei piccoli dagli occhi lucidi e dalle guance scavate. Cristoforo sapeva essere molto delicato quando sollevava quei corpi lievi come di implumi e li adagiava sulla barella oppure li aggiustava sulle sedie a sdraio in fila sul terrazzo all’ora della terapia solare. Cristoforo sarebbe fuggito volentieri dall’ospedale per non farvi più ritorno, quando qualcuno di quei piccoli moriva. Era suo compito portare via il corpicino pallido più del lenzuolo che lo copriva e ne lasciava intuire il profilo. Ripensava a lungo ai visi smunti, senza più vita, la notte, quando non riusciva a prendere sonno nella casa grande, appartenuta ai suoi genitori, dove viveva da solo. All’alba, prima di partire per il turno di lavoro, sostava per un istante sull’aia e, dalla sommità della collina, guardava in direzione del sole. Scorgeva, ancora indistinta, la massa dei tigli da cui si alzavano, come tolde di vascelli, le sommità dei padiglioni del sanatorio. Pensava che quella luce avrebbe infuso un po’ di vigore ai suoi piccoli. Così gli aveva insegnato Benedetto.

Un giorno Cristoforo lo aveva sorpreso in laboratorio: l’occhio incollato al microscopio, era intento a osservare una cosa molto importante. “Guarda anche tu! – gli aveva intimato il medico - E’ questo il nemico!” Così, anche lui aveva potuto osservare quel bastoncello rossastro. “E’ il microbo della TBC; pensa: muore alla luce, all’azione dei raggi ultravioletti. Non possiamo accontentarci, però; stiamo cercando armi migliori per sconfiggerlo”.

Cristoforo provava un odio fortissimo per quegli animaletti rossi ed era felice che qualcuno si desse da fare per restituire la salute ai suoi piccoli amici. Quei bambini erano ormai parte della sua vita: con modi semplici e poche parole, riusciva a comunicare immediatamente con loro. Bastava uno sguardo, un luccichio negli occhi, un sorriso appena abbozzato che solo i piccoli malati sapevano riconoscere, e l’allegria esplodeva in reparto. Pochi, neppure le bambinaie che si occupavano dei più piccoli, mostravano una sensibilità come la sua. Per questo, Cristoforo si stupì, quando conobbe Benedetto. Fin dai primi giorni di lavoro, quel medico giovane dai modi gentili si era mostrato pieno di premure verso i bambini, disposto a sorridere e a confortarli, instancabile nel giro delle corsie. Benedetto si occupava non solo delle ghiandole e dei polmoni, ma voleva anche sapere come i suoi piccoli pazienti, lontano dalle famiglie, si sentissero in ospedale. Si sedeva sul letto, parlava con ciascuno e si preoccupava sempre che fossero contenti, che giocassero: era quella, diceva, una grande medicina.

A poco a poco, Cristoforo, parlando con Benedetto, aveva preso qualche rudimentale confidenza coi segreti della scienza. Sapeva già qualcosa delle diverse cure e dei successi derivati dalle sperimentazioni che il medico rintracciava sulle riviste specializzate e gli spiegava con pazienza. Si sentiva pieno di entusiasmo perché anche lui partecipava alla guerra contro la TBC: sì, proprio lui, un semplice barelliere, a dispetto della gerarchia dei reparti, era in prima linea. A mano a mano che Benedetto gli indicava i nuovi farmaci e gliene illustrava l’efficacia, Cristoforo vedeva molti dei suoi piccoli rifiorire, parecchi di loro guarire e lasciare l’ospedale.

Nel corso di pochi anni, le corsie si vuotarono e molti reparti furono chiusi. I padiglioni apparivano stranamente deserti. Come un vecchio cimitero sconsacrato, che mostra lapidi antiche e croci corrose dal tempo, il sanatorio si presentava in uno stato di inesorabile decadenza, consunto anch’esso da un male gravissimo come la tisi. Nuovi reparti per la cura di altre malattie furono, allora, allestiti all’interno dei vecchi padiglioni, e, mentre il sanatorio si trasformava, gli ultimi malati di tubercolosi venivano raccolti in una minuscola ala dell’ultimo reparto, affidati alle cure di Benedetto e dei pochi medici che avevano scelto di continuare a lavorarvi. Solo una parte del vecchio sanatorio era rimasta vuota: il vasto piano dell’ultimo padiglione dove si apriva il reparto infantile. Si presentava in uno stato di incuria completa, pieno di mobili accatastati e di suppellettili inutilizzate da tempo: letti, reti sfiancate, lavagne con graffiti di gesso, tabelle e schede ingiallite e calpestate. Faceva pensare al polveroso magazzino di un museo, un luogo dimenticato, abbandonato per sempre.

Con la mente occupata dai ricordi, Cristoforo si aggirava lungo i viali dell’ospedale, incredulo di dover lasciare per sempre quel luogo che per più di quarant’anni era stato una parte di lui. Ma non era tipo da mostrare commozione, né da cedere alla nostalgia. Lanciato un breve cenno d’intesa a Benedetto, aveva proseguito la passeggiata verso l’ultimo padiglione, desiderando congedarsi dal reparto che per primo lo aveva accolto, quando, all’età di vent’anni, era stato assunto in ospedale. Negli ultimi tempi, vi si era recato assai di rado. Sapeva che quel piano era stato rinnovato da poco per accogliere un nuovo reparto. Non sapeva di quale reparto si trattasse, né l’indicazione “Oncologia pediatrica” gli disse qualcosa in più. Gli bastò varcarne la soglia per sentirsi gelare. Vi erano ancora ricoverati dei bambini. Alcuni si aggiravano in pigiama per i corridoi. Come erano diversi dai suoi piccoli malati! Erano violentati, deformati dal male: l’aria inerte, gli occhi spenti e tristi persi nel pallore del volto. Esili automi senza più carica, parevano esaurire gli ultimi sussulti della vita. Alcuni mostravano sul cranio rasato la trasparenza di sottili vene azzurre. Altri parevano già vecchi; con le grinze sul viso e l’addome gonfio, camminavano a fatica sorretti dalla mamma. Ve n’erano anche di molto piccoli; come uccellini in gabbia, guardavano attraverso le sbarre del lettino quel mondo nuovo, dipinto a colori vivaci, ma intriso di un’atmosfera cupa e desolata, che, sotto la cruda luce al neon, faceva apparire ancora più irreali quei piccoli visi dagli occhi grandi, abbagliati da un dolore così forte.

C’erano ancora bambini che soffrivano e morivano fra i tormenti di una malattia nuova! Cristoforo comprese che il male, quello incurabile, non colpiva soltanto gli adulti: si accaniva con crudeltà anche sui più piccoli. Gli parve che i suoi giovani amici di un tempo fossero ancora ricoverati. Avrebbe voluto restare in quel reparto per lottare con loro contro il male, per accendere un sorriso su quei volti spenti, già rassegnati alla morte. Un malessere forte e sordo lo accompagnò, mentre scendeva a capo chino i gradini esterni del padiglione. Sentiva di aver lasciato da soli per sempre quei bambini. Si sentì solo anche lui: solo e impotente di fronte al dolore, al male che in forme diverse e più terribili risorge di continuo, lasciando all’uomo, a ogni tregua, soltanto l’illusione di avere sconfitto per sempre la sofferenza. Pieno di disperazione, si preparò a lasciare l’ospedale. All’improvviso, una speranza nuova si fece strada fra i suoi pensieri. Era sicuro che in qualche parte del mondo gli scienziati stessero studiando e preparassero ricerche coraggiose per sconfiggere quella malattia. Cristoforo non ebbe alcun dubbio: ancora una volta la vita avrebbe trionfato sul male che pare non lasciare speranza. Tra qualche tempo anche quel reparto si sarebbe vuotato, nei corpi di quei bimbi sarebbe tornata la vita. Avrebbe chiesto a Benedetto, si sarebbe informato sui progressi della scienza, sarebbe tornato ancora a visitare quei piccoli, avrebbe cercato di trasmettere loro un po’ della sua forza. Voleva riaccendere la speranza, raccontando la storia dei suoi giovani malati, usciti proprio da quel padiglione e restituiti alla vita. Sperò intensamente di poter vivere abbastanza a lungo per gioire della loro guarigione. Solo allora si sarebbe sentito in pace.

Era l’ora in cui i dipendenti uscivano a gruppi dall’ospedale e sfilavano veloci lungo i viali alberati. Seduti sulle panchine, i pazienti si godevano gli ultimi palpiti del tramonto. Il sole calante batteva sui tigli, levando un pulviscolo dorato, e accendeva di rossa luce le gallerie. Nello spiazzo centrale, le voci degli ultimi visitatori risuonavano sommesse, quasi timorose di turbare la quiete di quell’ora. Gli infermieri del turno di notte si affrettavano verso le guardiole solitarie. Tra poco, l’ospedale si sarebbe immerso nel pesante sonno notturno. Cristoforo si attardò, indugiando un istante, prima di varcare per ultimo il cancello dell’ospedale. Vi fu chi disse di avere scorto sul suo volto un sorriso abbozzato e subito svanito, mentre un po’ curvo, in sella alla sua moto, si dirigeva da solo verso casa.

 

1993

 

Pierluigi Moressa medico psichiatra, membro ordinario SPI, giornalista pubblicista, è attualmente referente della cultura per il Centro Adriatico di Psicoanalisi. Ha pubblicato numerosi saggi in tema di storia, arte,
letteratura. Vive e lavora a Forlì.

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